Jacopo Fo sulla meditazione orientale
In un seminario a cui ho partecipato nel 2023, Jacopo Fo, artista e scrittore (e incidentalmente figlio di Jacopo Fo e Franca Rame) ci ha raccontato che, dopo un periodo trascorso nel monastero buddista tibetano di Pomaia, in Toscana, si è reso conto che per anni aveva praticato una forma di meditazione “sbagliata”. Spesso le tecniche di meditazione insegnate in Occidente da maestri orientali (mantra, visualizzazioni focalizzate – la meditazione sul respiro merita un discorso a parte) puntano inizialmente a rafforzare la capacità di concentrazione – una facoltà che noi occidentali, sottolineava Jacopo Fo, abbiamo già ben sviluppata e che, se ulteriormente promossa, può provocare affaticamento mentale e dissociazione dal corpo.
Provo qui a spiegare la sua argomentazione.
Meditazione focalizzata: perché funziona (meglio) in Oriente
Le culture orientali tradizionali, come quella indiana o tibetana, sono storicamente meno razionalistiche rispetto a quelle occidentali. Il pensiero tende a essere più analogico, mitico, simbolico, meno strutturato secondo la logica cartesiana o l’argomentazione lineare. Il loro funzionamento mentale è meno analitico e più immerso nel flusso esperienziale.
In questo contesto, pratiche come la ripetizione del mantra, la focalizzazione sul respiro o su un punto del corpo, servono proprio a sviluppare una maggiore capacità di concentrazione e astrazione, capacità che non sono al centro della formazione culturale ed educativa tradizionale. In maggior dettaglio, il percorso buddista tradizionale ha fasi progressive: (vedi l’articolo Cos’è e a cosa serve la meditazione)
- Fase iniziale: sviluppare la calma e la concentrazione mentale (samatha), per quietare la mente dispersa e renderla stabile;
- Fase intermedia: coltivare la visione profonda (vipassanā), osservando direttamente l’impermanenza, l’insoddisfazione e l’assenza di un sé stabile nei fenomeni mentali e corporei (vipassana). In alcune scuole la fase 1 e 2 vengono sviluppate assieme, non in sequenza rigida
- Fase avanzata: realizzare l’assenza del sé (anattā), superare l’attaccamento e raggiungere la liberazione dalla sofferenza (nibbāna)
Viceversa, l’Occidente moderno educa fin da piccoli al controllo cognitivo, alla scomposizione razionale, alla pianificazione. Fin dalla scuola, siamo allenati a ragionare per obiettivi, a dividere la realtà in categorie logiche, a risolvere problemi con metodi lineari e analitici. Studiamo per analisi, valutiamo per indicatori, comunichiamo per astrazioni. Questa impostazione, pur utile in molti ambiti (scientifici, professionali, organizzativi), produce nel tempo uno squilibrio profondo.
Molte persone vivono costantemente “nella testa”: immerse in un flusso ininterrotto di pensieri, previsioni, autoanalisi, giudizi e controlli. Questo continuo monitoraggio mentale ci tiene in uno stato di tensione cronica, in cui il corpo viene trascurato o vissuto come un oggetto da gestire, più che come una fonte di intelligenza e saggezza.
Quando il controllo mentale si irrigidisce, l’intuizione, la creatività e la spontaneità ne risultano inibite. Ci si dissocia progressivamente dal sentire corporeo, dalle emozioni autentiche, dal piacere fisico e relazionale. Per una mente occidentale già iper-focalizzata, la meditazione come ulteriore esercizio di attenzione e controllo mentale può diventare un nuovo campo di perfezionismo, ansia da prestazione spirituale, o peggio, un modo sofisticato per evitare il contatto con le parti più vive e disordinate del proprio essere.
Un esempio pratico
Un giovane monaco tibetano che ha vissuto un’infanzia semplice, immerso nella natura, senza alcuna frequenza scolastica, potrà trarre grandi benefici dalla meditazione focalizzata: è uno strumento di centratura che rafforza la sua scarsa capacità di attenzione continuativa.
Un occidentale, invece, spesso arriva alla meditazione dopo anni di stress da prestazione, sovraccarico informativo e ipercontrollo mentale. Praticare ulteriori tecniche di concentrazione rischia di essere controproducente. Siamo già “iperconcentrati” per stile di vita e cultura – lavoriamo ore e ore al giorno focalizzati su compiti specifici, pianifichiamo costantemente il futuro, analizziamo tutto razionalmente.
Quello di cui abbiamo bisogno è esattamente l’opposto: imparare a “mollare la presa”, a lasciare andare il controllo, a permettere alla mente di rilassarsi e alla consapevolezza di espandersi naturalmente. È significativo che Fo menzioni positivamente Jiddu Krishnamurti, che infatti proponeva un approccio completamente diverso: non tecniche di concentrazione, ma semplicemente “vivere consapevolmente il qui e ora, e nient’altro”.
Questo è un esempio di come l’importazione acritica di pratiche spirituali, senza considerare il contesto culturale di origine e quello di destinazione, possa produrre effetti opposti a quelli desiderati.
Due tipi di concentrazione: tensiva e rilassata
L’argomentazione di Fo, pur corretta nel suo nucleo centrale, necessita di alcune precisazioni importanti. I benefici delle tecniche di concentrazione, per gli Occidentali, dipendono dal tipo di concentrazione e dalla finalità con cui vengono praticate.
Esiste infatti una differenza fondamentale tra:
Concentrazione tensiva: controllante, giudicante, orientata al risultato, che mantiene o aumenta lo stato di tensione mentale
Concentrazione rilassata: ricettiva, accogliente, presente, che favorisce il rilassamento e la connessione corporea
La mia esperienza col training autogeno
In un certo periodo della mia vita soffrivo di ansia e ho praticato il training autogeno, una tecnica laica di meditazione sviluppata negli anni ’30 da uno psichiatra tedesco. Viene usato anche nella preparazione al parto. Il training autogeno permette di imparare a rilassare il proprio corpo. In particolare, insegna a influenzare alcune funzioni corporee solitamente automatiche, come il battito cardiaco, la respirazione, la vasodilatazione e la temperatura periferica, e per questa via migliora la connessione mente-corpo.
La mia esperienza fu positiva: l’ansia mi passò. Lo uso ancora, di tanto in tanto, quando mi rendo conto che alcune parti del corpo sono tese.
Il training autogeno, pur essendo una pratica focalizzata, ha caratteristiche specifiche che la rendono benefica per gli occidentali:
- È orientato al rilassamento, non alla performance
- Connette con il corpo invece di astrarsene
- È passivo e ricettivo piuttosto che controllante
- Mira alla distensione della tensione mentale
Pratiche di “blocco” vs pratiche di “connessione”
Un’altra distinzione utile è quella tra pratiche meditative che hanno obiettivi diversi:
Pratiche “di blocco” del pensiero (tipicamente i mantra):
- L’obiettivo primario è occupare la mente con un contenuto ripetitivo per impedire il flusso abituale dei pensieri
- Funzionano per sostituzione: rimpiazzano il chiacchiericcio mentale con una formulazione fissa
- Possono creare uno stato di trance o assorbimento mentale
- Rischiano di rafforzare l’approccio controllante (“devo ripetere perfettamente il mantra”)
- Per gli occidentali già ipermentali, possono essere controproducenti perché mantengono l’attività nella sfera cognitiva
Pratiche “di connessione corporea” (tipicamente quelle sul respiro):
- L’obiettivo è riorientare l’attenzione verso le sensazioni fisiche
- Funzionano per spostamento: dalla testa al corpo, dall’astratto al concreto
- Possono favorire il rilassamento e la presenza sensoriale
- Sviluppano propriocezione e consapevolezza corporea
- Per gli occidentali dissociati dal corpo, possono essere riequilibranti
Tuttavia, questa distinzione non è assoluta: anche il respiro può essere praticato in modo “di blocco” (concentrandosi ossessivamente sul controllo del ritmo respiratorio), mentre anche i mantra possono essere praticati in modo “corporeo” (sentendo le vibrazioni nel corpo).
La qualità dell’attenzione fa la differenza
Se non vogliamo seguire l’approccio di Krishnamurti, e desideriamo praticare esercizi di concentrazione, è necessario prestare attenzione alla qualità della concentrazione stessa. Una meditazione sul respiro praticata con gentilezza e accettazione, orientata a sentire maggiormente il corpo, è molto diversa da un mantra ripetuto con rigidità mentale per bloccare i pensieri.
La differenza cruciale è nell’atteggiamento:
- Approccio “di blocco”: “Devo fermare i pensieri, devo fare bene”
- Approccio “di connessione”: “Osservo gentilmente, accolgo quello che emerge”
Per gli occidentali, le pratiche che riconnettono al corpo come il training autogeno sono generalmente più benefiche di quelle che ci mantengono nella sfera mentale, anche se con contenuti diversi.
La meditazione “decorativa” del corsi New Age
Nella mia esperienza personale, ho notato che in molti corsi e seminari olistici o new age vengono proposte pratiche meditative senza spiegazioni chiare su cosa servano o quale sia l’obiettivo (vedi la ‘meditazione alla luna’ proposta in un corso a cui ho partecipato questa settimana). Spesso ci si limita a dire: “chiudi gli occhi e ascolta il respiro” oppure “medita qualche minuto per centrarti”, ma manca del tutto una cornice, un’intenzionalità, un riferimento filosofico o terapeutico.
I conduttori propongono tecniche di concentrazione (sul respiro, su visualizzazioni, mantra semplificati) per creare un’atmosfera ‘spirituale’, come riempitivo o come tecnica ‘magica’ per rilassarsi, senza peraltro considerare che per menti già iperattive potrebbero essere controproducenti.
Vedi anche
- Gli insegnamenti di Jacopo Fo
- Cos’è e a cosa serve la meditazione
- Non credo più all’Oriente
- I chakra non esistono
- Lavorare a maglia fa bene come lo yoga
- Corsi New Age con trattamento psicologico obbligatorio
Autore © Leonardo Evangelista con l’aiuto dell’intelligenza artificiale. L’articolo rispecchia le opinioni dell’autore al momento dell’ultima modifica. Vedi le indicazioni relative a Informativa Privacy, cookie policy e Copyright.